Volevamo che fosse un pomeriggio di raccoglimento per ricordare le vittime di questa tremenda pandemia. Qualcosa che ci restituisse per un po’ gli affetti di coloro che ci sono stati strappati improvvisamente, talvolta senza saluti, senza vedere, senza poter accompagnare.
È stato molto di più. Mai l’obitorio di un ospedale è sembrato un luogo così vivo, così aperto, così inclusivo.
Le prime battute danno subito il senso: “Ne avevamo proprio bisogno”, “”Bellissima iniziativa”, “Grazie per averci pensato”.
A mano a mano che lo spazio liberato dalle auto si riempiva di persone il colore ed il calore sono esplosi. Gomitate, mezzi inchini, piccoli tocchi timorosi. Siamo goffi, un po’ impacciati, dobbiamo ancora capire bene come si fa, ma vogliamo stare insieme, e rivederci, e conoscerci. Per progettare, per costruire, reinventarci.
Un muro bianco, finalmente, come una pagina bianca da scrivere, uno spazio libero da riempire. Cosa c’è di meglio per dare l’idea di un inizio? É l’esatto opposto della fine che questo luogo rappresenta? No, a pensarci bene è un simbolo di passaggio, di continuità con quelli che abbiamo lasciato, che sono stati parte di noi e che vorremmo continuassero ad esserlo.
E allora mettiamoci le parole, i colori dell’aiuola, i profumi dell’erba e dei fiori, e la musica, non solo note ma vibrazioni, e silenzi, ed emozioni.
“Grazie agli operatori degli ospedali e delle case di riposo perché hanno aiutato i nostri cari a non sentirsi soli – dice Sara Novaretti che avrebbe voluto essere vicina ad un’amica in quei giorni – perché hanno riempito un vuoto nel momento estremo della vita, andando ben al di là del ruolo legato alla loro professione”.
“Mentre si era alla ricerca affannosa di una risposta medica – risponde la psicologa Patrizia Colombari – siamo riusciti a dare un po’ di vicinanza”. Ma “Non vogliamo essere chiamati eroi” aggiunge Rita Levis, infermiera nella pandemia.
La piazza adesso è piena, il paragone con Piazza San Pietro il 27 marzo, evocato dal vescovo di Biella Mons. Roberto Farinella, completamente deserta durante la benedizione urbi et orbi di papa Francesco, porta ad una sensazione di liberazione e ci restituisce l’emozione dell’appartenenza perché, come dice il Prefetto Fabrizia Triolo “grandi gioie e grandi dolori servono ad alimentare il senso di comunità”.
E la comunità è fatta di diversi, con fedi differenti o senza nessuna fede, ma uniti di fronte al bisogno ed al bene comune. E le citazioni echeggiano: “Vorrei parlare di Dio non ai confini ma al centro – sono le parole di Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano perseguitato dal nazismo – non ai limiti della conoscenza umana, dove le forze vengono meno, per dare soluzione a problemi insolubili, vorrei incontrarlo nel centro del villaggio”.
Josè Saramago, grande scrittore e premio Nobel, certamente ateo, avrebbe aggiunto “in un mondo in cui tutti gli uomini diventassero ciechi, finalmente le cose apparirebbero per quello che realmente sono”.
È tardi ormai, molte voci si sono alternate: rappresentanti delle istituzioni, pazienti, operatori, amici e parenti delle vittime del Covid.
Gesti semplici intorno alle nuove piante dell’aiuola: un po’ di terra, dell’acqua, tante foto. Cade qualche goccia di pioggia, ci salutiamo “con l’augurio che questo diventi un luogo di consolazione – è il commiato di Guido Dotti, monaco della comunità di Bose e delegato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso – emblema del prendersi cura gli uni degli altri, nel concreto, nel quotidiano”.
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